Il ricorso al doping, inteso come assunzione di sostanze finalizzate a migliorare le prestazioni dell’atleta, è un fenomeno vecchio quanto lo sport.
Negli ordinamenti moderni l’utilizzo di sostanze dopanti è di regola punito come illecito sportivo, cui conseguono sanzioni disciplinari (squalifiche a tempo, radiazioni…). È poi la legge n. 376 del 2000 (Disciplina della tutela sanitaria delle attività sportive e della lotta contro il doping), attuativa della Convenzione contro il doping di Strasburgo del 16 novembre 1989, ad introdurre nell’ordinamento italiano il reato di doping.
Il reato di doping
L’art. 9 della detta legge punisce con la reclusione da 3 mesi a 3 anni e con la multa da euro 2.582 a 51.645, salvo che il fatto costituisca più grave reato, “chiunque procura ad altri, somministra, assume o favorisce comunque l’utilizzo di farmaci o sostanze biologicamente o farmacologicamente attive, ricomprese nelle classi previste all’articolo 2, comma 1, che non siano giustificati da condizioni patologiche e siano idonei a modificare le condizioni psicofisiche o biologiche dell’organismo, al fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti, ovvero siano diretti a modificare i risultati dei controlli sull’uso di tali farmaci o sostanze”. Con la stessa pena, il comma 2 del medesimo articolo punisce “chi adotta o si sottopone alle pratiche mediche ricomprese nelle classi previste all’articolo 2, comma 1”.
La norma, dunque, presenta uno spettro più ampio di quello previsto nella definizione di doping: infatti, mentre l’art. 1 della citata legge 376/2000 definisce come doping la somministrazione e l’assunzione di farmaci e sostanze vietate, nonché la sottoposizione a pratiche mediche non giustificate, l’art. 9 punisce, oltre alle dette condotte, anche il procurare ad altri le sostanze vietate ed il favorirne comunque l’utilizzo. È dunque equiparato al doping anche il procacciamento di farmaci vietati, indipendentemente dal loro effettivo utilizzo, nonché ogni condotta che ne favorisca l’utilizzo.
Soggetto attivo del reato di doping può essere “chiunque”, e quindi non soltanto l’atleta tesserato che fa uso di sostanze dopanti o l’allenatore, il preparatore atletico, il medico sociale o l’ufficiale di gara che gliele somministra, ma anche qualsiasi altro soggetto, ancorché del tutto estraneo al mondo dello sport.
Il principale oggetto della tutela penale apprestata dalla fattispecie di doping è rappresentato dalla salute di chi pratica attività sportive o, come si legge nell’art. 1 della legge in questione, dalla integrità psicofisica degli atleti.
Nata per tutelare la salute, la fattispecie di doping è costruita come reato di pericolo: l’assunzione delle sostanze vietate costituisce, di per sé, un rischio per la salute, che rende pertanto punibile la condotta a prescindere dal verificarsi di un qualche danno effettivo. L’ipotesi che dall’impiego di farmaci o sostanze vietati derivi un danno alla salute dell’atleta rappresenta un’aggravante del reato di doping, prevista dal comma 3 del citato art. 9.
I farmaci, le sostanze biologicamente o farmacologicamente attive e le pratiche mediche vietate sono solo quelle ricomprese nelle classi previste all’art. 2, comma 1, l. 376/2000 approvate con decreto ministeriale (nonché quelle indicate nelle fonti internazionali richiamate da tale articolo), salvo che la loro assunzione non sia giustificata da condizioni patologiche dell’atleta, documentate e certificate dal medico. Invero, in presenza di finalità terapeutiche documentate, l’assunzione delle sostanze o la sottoposizione a pratiche mediche coerenti non costituisce doping, ma cura dell’atleta.
Il citato art. 9 specifica che perché il fatto sia illecito e quindi punibile è necessario che i farmaci assunti siano “idonei a modificare le condizioni psicofisiche o biologiche dell’organismo”. Questo richiamo non costituisce una superflua ripetizione di un concetto già ricompreso nella classificazione delle sostanze nelle classi di doping, ma intende porre l’attenzione sulla necessaria offensività dell’assunzione rispetto al bene giuridico tutelato, quello della salute dello sportivo.
La positività alle analisi è elemento fortemente sintomatico della avvenuta modifica delle condizioni dell’organismo; ma questo requisito, che nell’ordinamento sportivo può essere sufficiente per la verifica della violazione disciplinare, nell’ordinamento penale deve essere accompagnato dall’accertata idoneità della sostanza ad incidere sull’organismo in termini di pericolo per la salute. Ne consegue che il giudizio di pericolosità deve essere condotto sia sul versante dell’assunzione della sostanza proibita sia sulla modifica che essa abbia indotto sulle condizioni psicofisiche e biologiche dell’organismo: una duplicità di requisiti che si traduce, sul piano dell’accertamento, in una verifica puntuale delle conseguenze che l’assunzione abbia avuto o potrà avere sulla salute dell’atleta.
Sebbene questo sia l’orientamento prevalente in dottrina e in giurisprudenza, non mancano voci secondo le quali al Giudice non debba essere demandato l’accertamento sulla effettiva pericolosità dei farmaci, delle sostanze o delle pratiche mediche a mettere in pericolo la salute dell’assuntore: sta infatti all’apposito decreto ministeriale, emanato anche nel rispetto di autorevoli fonti internazionali, garantire l’evidenza scientifica della pericolosità di determinati farmaci, sostanze e pratiche mediche.
Il dolo del reato di doping consiste nella consapevolezza e volontà di procurare o di assumere le sostanze o i farmaci vietati (in quanto inseriti nelle tabelle ministeriali), ovvero di adottare o sottoporsi a pratiche mediche vietate, e della loro idoneità ad alterare le condizioni psicofisiche dell’atleta (o a eludere i controlli), con l’ulteriore consapevolezza e volontà (dolo specifico) di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti.
Se nessun dubbio si pone per l’incriminazione delle condotte che assumono la forma del c.d. eterodoping (procacciamento, somministrazione, favoreggiamento dell’impiego di sostanze dopanti o dell’adozione di pratiche mediche proibite), lo stesso non può dirsi per le condotte di autodoping (assunzione spontanea delle sostanze vietate e sottoposizione a pratiche mediche vietate, nella consapevolezza, da parte dell’atleta, che esse non soddisfano alcuna esigenza terapeutica). Invero, l’incriminazione delle condotte di autodoping potrebbe porsi in contrasto con la scriminante del consenso dell’avente diritto di cui all’art. 50 c.p.
Come abbiamo cercato di sottolineare, plurime sono le questioni e i dibattiti aperti sul tema del doping nelle attività sportive: seguiranno pertanto altri approfondimenti sull’accertamento del reato, sul c.d. autodoping e sulle pronunce dei giudici di merito e di legittimità sull’argomento.