La malattia giuridicamente rilevante, cui fanno riferimento l’art. 582 c.p., che punisce la lesione personale, e l’art. 590 c.p., che punisce le lesioni personali colpose, non comprende tutte le alterazioni di natura anatomica, che possono anche mancare, ma comprende quelle alterazioni da cui deriva una limitazione funzionale o un significativo processo patologico o una compressione, anche non definitiva ma significativa, di funzioni dell’organismo.
È quanto ha stabilito la Corte di Cassazione, sez. IV penale, con la sentenza n. 22156 del 26 maggio 2016, in riferimento al caso di un medico radiologo che, refertando i radiogrammi dell’esame tac, per colpa generica e specifica aveva cagionato lesioni personali gravi. In particolare, l’imputato, omettendo di refertare correttamente la presenza di un’area osteolitica nel peduncolo destro, aveva causato un aggravamento della stessa e, per la persona offesa, una malattia ed una incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni per un periodo superiore a 40 giorni.
I reati di percosse e di lesione personale
La sentenza in esame sottolinea innanzitutto la distinzione tra il reato di percosse ex art. 581 c.p. e il reato di lesione personale ex art. 582 c.p. (nonché, di riflesso, il reato di lesioni personali colpose ex art. 590 c.p.). Ad integrare il primo delitto è sufficiente il mero esercizio della violenza fisica, il cui evento è costituito esclusivamente dal pregiudizio all’incolumità personale. Si configura, invece, il delitto di lesione personale quando alla violenza fisica consegue una malattia nel corpo o nella mente.
Il concetto di malattia
Come evidenziato dalla Suprema Corte, il concetto di malattia ha diviso per decenni dottrina e giurisprudenza perché, a fronte di una nozione incentrata esclusivamente sulla mera alterazione anatomica, si è prospettata, in particolare dalla dottrina, una concezione diversa che fa riferimento alla necessità che a questa alterazione, che peraltro può anche mancare, si accompagnino limitazioni funzionali.
A sostegno della prima concezione è senza dubbio la relazione ministeriale al codice penale, nella quale si fa riferimento, per definire la malattia, a “qualsiasi alterazione anatomica o funzionale dell’organismo, ancorché localizzata e non impegnativa delle condizioni organiche generali”, laddove l’uso della disgiuntiva fa intendere che sia sufficiente la mera alterazione anatomica perché possa ritenersi verificata la malattia. In questo senso, anche minime alterazioni anatomiche provocate da una percossa (come, ad esempio, l’arrossamento della cute, il piccolo graffio, le ecchimosi, i piccoli ematomi, le escoriazioni ecc.) potrebbero integrare la malattia cui fa riferimento l’art. 582 c.p., restringendo così l’area del delitto di percosse ai soli casi in cui alcuna alterazione anatomica si sia verificata, e cioè ai soli casi nei quali la violenza sia stata minima e tale da non provocare neppure una modesta conseguenza.
Ma a tale orientamento si è da tempo obiettato che la nozione di malattia accolta nel campo medico-scientifico è diversa e si riferisce alle alterazioni del corpo umano che inducano una limitazione funzionale dell’organismo anche di modesta entità. E la più recente giurisprudenza di legittimità, configurando la malattia in senso più aderente a quello della scienza medica, non ritiene sufficiente ad integrare la malattia la semplice alterazione anatomica priva di alcuna conseguenza e alla quale non consegua un processo patologico significativo. È stato infatti affermato che il concetto clinico di malattia richiede il concorso del requisito essenziale di una riduzione apprezzabile di funzionalità, a cui può anche non corrispondere una lesione anatomica, e di quello di un fatto morboso in evoluzione, a breve o lunga scadenza, verso un esito che potrà essere la guarigione perfetta, l’adattamento a nuove condizioni di vita oppure la morte (Cass. pen., sez. V, n. 714 del 1999; e Cass. pen., sez. IV, n. 10643 del 1996).
La Suprema Corte, nella sentenza n. 22156 del 2016 ha così concluso che nel concetto di malattia giuridicamente rilevante, ai sensi dell’art. 582 c.p. (e, di riflesso, dell’art. 590 c.p.), non rientrano tutte le alterazioni di natura anatomica, che possono anche mancare, ma vi rientrano quelle alterazioni da cui deriva una limitazione funzionale o un significativo processo patologico o una compromissione, anche non definitiva ma significativa, di funzioni dell’organismo. Diversi sono poi i postumi che, di per sé, non costituiscono malattia, ma sono, nella normalità dei casi, conseguenza della malattia che va dunque autonomamente accertata e che dà luogo, in numerosi casi, ad aggravanti del reato di lesioni personali.
Ed è stato altresì precisato che, ai fini della configurabilità del delitto di lesioni gravi, non ha rilievo che l’organo fosse già menomato, purché si verifichi un ulteriore aggravamento, che ne comprometta maggiormente la funzionalità (Cass. pen., sez. V, n. 2782 del 1990).
Quanto al caso di specie, la Corte di Cassazione ha annullato l’impugnata sentenza che, in riforma della pronuncia di condanna di primo grado, ha assolto il medico radiologo. Secondo i Giudici di legittimità, la Corte d’Appello di Catanzaro, che ha escluso che vi sia stata lesione in mancanza di un aggravamento della malattia a causa della omessa diagnosi da parte dell’imputato, non ha fatto corretta applicazione del concetto di malattia come interpretato dalla più recente giurisprudenza, ed ha travisato i risultati delle acquisite prove scientifiche. Era infatti emerso da quanto accertato dai periti che il medico, pur disponendo di idonee attrezzature e della specializzazione in radiologia, aveva omesso di refertare la presenza di una area osteolitica nel peduncolo destro ed aveva omesso di predisporre i necessari approfondimenti, nonché il conseguente intervento chirurgico di asportazione della patologia; aveva così causato un aggravamento della stessa e, per la persona offesa, l’incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni per un periodo superiore ai 40 giorni. La tempestiva corretta lettura delle lastre, avrebbe, invero, permesso la tempestiva diagnosi della osteoblastoma e, quindi, avrebbe evitato il protrarsi della malattia (id est, l’incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni) per un periodo di gran lunga superiore ai 40 giorni. Accogliendo il ricorso della parte civile, la Suprema Corte ha così annullato l’impugnata sentenza con rinvio al giudice civile competente.